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TRA I SOLCHI

Concentrarsi sempre sui perché, quando trattiamo di musica, è conveniente e costruttivo. La composizione-modello scaturisce dal nostro modo di rapportarci con l’aria, fermento di vibrazioni e idee, non semplicemente acustiche. Sta a noi sentirle, catturarle e selezionarle, in attesa del nostro miglioramento di esseri. Le prime parole di “Ansia” del B. per l’Inf., pezzo accreditato al “Biglietto” sul logo del vinile originale, separano l’assassino dall’uomo nuovo, dall’essere che anela a riscattarsi, a fuggire dall’”io vecchio”, ormai inservibile. E’ il rimorso, spesso, ad azionare la molla, pur essendo frequente un altro tipo di stimolo, vertente su propositi d’elezione, ossia collegati a volontà di migliorarsi: da qui la vera entità etimologica della parola “progressivo”, ancorata alla visione di una sostanziale crescita di qualità di sè stesso, nel caso di specie, attraverso l’elemento “musica”. A volte il riscatto morale viene direttamente da una canzone popolare, dal pop migliore della stagione migliore. Aveva centrato tale tesi anche l’ex Delirium, Ivano Fossati, ne “La canzone popolare”, ad esaltare il rispetto che un po’ tutti abbiamo il dovere di nutrire per questa ineguagliabile forma d’arte, la canzone pop, perfetta nella sua sublime vocazione a sintetizzare in poche battute musicali, le eterne, assolute verità: . Il brano, tra l’altro, è stato di recente interpretato nella gradevole versione “rock spinto” degli Afterhours, impegnati felicemente anche in una spiccata rielaborazione di “Gioia e Rivoluzione”degli Area. Si, dobbiamo sinceramente avere timore reverenziale per questo prezioso strumento culturale, la canzone, di cui abbiamo bisogno per aprire ad incommensurabili conquiste la vita di tutti i giorni, passe-partout per arricchire l’anima.

 

L’”ansia” del peccatore deriva da quel seme inestinguibile che ci trasporta verso l’augurabile purificazione, tentativo-dono, insito nella cellula della speranza, inestinguibile. Canali e compagni attirano a se’ l’attenzione di moltitudini di anime, desiderose di perfezionarsi : “Un amico ha parlato di preti, mai visti, chi sono? che fanno?”. L’uomo vestito di nero, il prete, visto tante volte come “luogo comune” di assurdità, prima, quella di sacrificarsi alla ricerca del Bene Utopico, menando l’esistenza nella totale invocazione a Dio, entità invisibile, dunque inesistente, secondo la più rozza delle opinioni, innaffiata da eserciti di “furbi miopi”. Il Biglietto rivaluta l’uomo nero, colto nel suo stato di grazia, reclamato dal peccatore quale ultima spiaggia del personale ravvedimento, nel rischioso crinale di disperazione, conato estremo per una riprogrammazione del suo sconquassato stato, attraverso il perdono, a dispetto dell’integrale, arroccata posizione dei giudizi e pregiudizi atei, spiccioli, frettolosi, irrispettosi, superficiali, da strada. Possano crollare, con l’ignoranza che si trascinano da sempre, i particolari aspetti di un’educazione lacunosa, scarsamente realistica, propizia all’ingratitudine, deviante dal corso naturale delle umane vicende, sprezzante di ogni pur minimo afflato di “Credo”. La Verità, disprezzata perché contumace, mai cercata, derisa, finirà per scovarti al momento giusto, sull’orlo del precipizio, nello stato di necessità. Riaffiora il suono della fede, quel silenzio che diviene assordante quando meno te lo aspetti, la grande energia a disposizione dell’uomo savio, che in Claudio Canali si affaccia sui terremoti dello squallore del rumore satanico, porta d’accesso alla stultitia, vibrione della morte dell’anima. La mistica Itala Mela ci ricorda che “il monaco che ha reciso ogni legame fra il suo cuore e le cose create, ha stretto legami ineffabili fra il suo cuore e il Creatore, il quale nella sua liberalità divina restituisce tutto al suo amore: un amore celeste che non è più separazione, ma unità con l’amore essenziale”. La forza della fede brucia le tappe e incensa i bagliori di un’armonia perduta all’alba dell’oscurantismo artistico di troppi musicisti che arenano le idee nel fango dell’LSD. Qui, per contro, in pieno oceano rock, si officia la rincorsa alla Verità assoluta, sfiorata e riconquistata nell’abbraccio della compunzione, riverita sulla “fin du monde present et mysteres de la vie future”. La voce carismatica di Canali è densa, calata magistralmente nel dramma interiore che si consuma, tormento morale che incendia il dilemma irrisolto. Pervaso da uno spasmo che, con sorprendente modalità umorale, incatena le migliori rappresentazioni interpretative della canzone italiana, dai tempi di Giacomo Puccini , ai canoni teatrali del melodramma, pur con l’autonoma statura di una ben delineata identità della canzone rock autonoma, libera di esprimere la propria “versione dei fatti” al mondo. Come dimenticare, in tale frangente, la magistrale interpretazione dell’extracomunitario, resa dai Truzzi Broders nel brano “Disoccupato rappo”, dall’incredibile album “N’zalla”, edito da “Totò alla prese coi dischi”, nel 1986 ? Cose molto affini per verve e musicalità già nella parola cantata, che diviene pari alla parola recitata, in “Confessione”, da Canali.

 

Il brano è accreditato a “ G. C. Cappellini – O. Trimboli “. Il contrasto che avevamo trovato esageratamente”prog” sul piano musicale in “Consiglio” dell’Uovo di Colombo, tra una armoniosa introduzione stile classico-acustico e la scarica elettrica sul binomio tastiera-chitarra, viene a riproporsi in “Confessione”, spalancata su infiniti orizzonti: “Racconta, fratello, qual è il tuo peccato, dimmi con chi, quante volte sei stato, hai detto bugie, hai fatto la spia ?...”, ma il peccatore ha ancora esitazioni sulla equità del sinistro comportamento: “Ascoltami, frate, non so se ho peccato, ho ucciso un bastardo che avrebbe voluto coprire coi soldi il suo sporco passato, tentando così di beffare il suo Fato”. Si noti come risalti la parte data al denaro, “sterco di Satana”, elemento catalizzatore della questione, improntata ai principi di un’altra morale, impostata sulle regole di una diversa giustizia. Il prelato, infatti, replica duramente: “ Cosa dici, fratello, tu hai ammazzato, nel quinto, ricorda, ti è stato proibito, non posso salvarti dal fuoco eterno, hai solo un biglietto per l’inferno”. Al che, il malfattore gela tutto e tutti con una conclusione che fa tremare il tempio: “Ascoltami, frate, e dimmi se questo lo chiami peccato o un nobile gesto: ho preso dei soldi a un ricco signore per dar da mangiare a un uomo che muore”. Il suono titanico, rilasciato da tasti e corde, ara letteralmente le onde del mare aperto, al punto di incocciare zone tempestose, illustrate rapidamente da ingorghi elettrici di chitarra esaltata da siluri flautistici, di intensità rara, che erompono tra i marosi procellosi ricchi di spuma perentoria, nel pieno di un’orgia dominata da Nettuno, impotente, con il suo appariscente tridente (Trident), a riportare l’improbabile bonaccia d’un riequilibrio dello spirito. Come faremo, noi uomini, a sopravvivere senza la fede? Come potremo affrontare la vita nelle fauci della tentazione, se non fortificati da quel dono insostituibile che è fonte di sopravvivenza spirituale e di salvezza, la fede? Ricordiamo che nel finale di “Pregherò” (testo italiano della versione di “Stand by me”), Adriano Celentano cantava anni prima: “…la fede è il più bel dono che il Signore ci da’ per vedere Lui” . Il B. per l’Inf. intona: ”…sulla terra regna una regina strana, abita in castelli formati d’ogni via, cambia abito ogni sera e si chiama Ipocrisia”. E’ l’apice dell’arringa sulle leggi contraddittorie che imperano sulla vita degli umani, in tensioni conflittuali a non finire per la sopravvivenza, gabello da pagare per stazionare sul pianeta apparentemente ospitale, tema ampiamente trattato nella apocalisse aurorale del terzo brano, “Una strana regina”, accreditata al “Biglietto” sul logo del long playing. Accenni di solidarietà con l’amico che uccide e ruba, “sei come me” , ravvisandosi in essi, ad onta delle apparenze, solo commiserazione ed autocensura.

 

Caro amico, siamo uniti in un atroce destino, ineffabile, congiunti ad una natura corrotta, propensa ad accontentare la passione, eppur tollerante con chi tenta di uscirne. Gli stessi santi son soggetti a tale sventura e soccombono sovente, a causa di simile situazione ambivalente, in colpe lievi e veniali, subendo gli assalti diabolici che portano a cedere agli inganni del vizio. La vita è però una lotta, una immane sfida che, allontanata ogni blandizia con la vittoria sulla mollezza, può farci soldati di Cristo, di Colui che versò il proprio sangue per acquistarci la Grazia Santificante. L’impianto compositivo di Banfi & soci riesce tenace, gradatamente si appropria della nostra totale osservazione d’ascolto, guidato da una spavalderia espositiva perfettamente informata alle eterne verità, sottese evangelicamente nei testi, puntualmente drappeggiati di fascino e mistero, esternati, con maggiore efficacia, dall’assoluta padronanza, al canto, di Claudio Canali, impeccabile maestro nel rendere fruibili e godibili i varchi per penetrare, istantaneamente, i mille segreti della sacra materia, continuamente messa in discussione dalla perversità descritta con sagacia, ma fermamente condannata dall’”Assoluto dogmatico”, espresso da una fede incoercibile che pervade, senza sosta, le liriche virtuosamente interpretate. E’ un autentico smacco per la ragione, fragile attributo della dimensione umana davanti al Trascendente. Pare che Canali, artefice del proprio “Io”, sia in grado di dettarci i segni inequivocabili di un cammino da lui stesso già sperimentato e reso ancor più credibile da una sorta di vena ironica che trapela, sottilissima, quasi impercettibile, dall’arcano timbro della sua magmatica voce, adattissima alle peculiarità del racconto, dall’irresistibile impronta progressiva, pesante in ogni solco di questo meraviglioso disco, storico del rock italiano. In esso, ciascuna nota ha la pretenziosità, bagnata dal successo, di scovare Satana nel suo alveo di putrefazione, e di spedirlo, dopo averlo munito di un “ticket to hell”, nel posto che più gli si addice. Il disco sottrae ogni forma di male alla materia umana, che ne esce rinfrancata, sollevata. Grazie a un ellepì così profondo, viene a sottolinearsi l’opportunità di immettere, nei Baccanali dell’Ozio, il pensiero di “Dio Solo”, vero volano, nella nostra miserrima esistenza in questa valle di lacrime, della speranza di salvezza. Radicale presa di posizione contro il lasciarsi andare, nelle stritolanti spire dell’amor proprio, il microsolco segna un reale inedito, all’interno del movimento musicale progressivo italiano e mondiale, non essendosi registrato, in precedenza, analogo messaggio morale così ficcante, così esclusivo, così sistematico, in viva opposizione all’Angelo della Ribellione, signore delle tenebre, messaggio ancor più efficace per le musiche di hard rock, rinvigorite, ulteriormente, da chiare venature di corposo progressivo, consone alle aspirazioni ispirate dai modelli propri dell’età più esposta all’”impantanamento da illusione”, che corre e correrà un qualsiasi giovane uomo del mondo, oggi, ieri, sempre. Questi, è scientificamente risaputo, in relazione alla tempesta ormonale che esplode nel suo organismo in crescita, si sente e si comporta come Giove Pluvio sulla terra, letteralmente spazzando via ogni cosa si trovi al suo passaggio: giusto in simili circostanze, vengono affrancati, dalle forze del Male, gli strumenti per violare gli Eterni Codici del Bene, per concretizzare il Regno Malefico sul pianeta, per agire contro il Senso Evangelico della Sacralità della Vita. A lungo andare, si è, così, sfibrata la nostra originaria capacità di discernimento del suono, vero spazio equidistante tra la materia e lo spirito, porto franco nel quale discorrere “a tu per tu” con Dio. Il soggiacere così sfrenatamente ai piaceri della carne, identificati come il massimo della materialità , porta con se’, inevitabilmente, ogni sventura, sotto l’egida di un grave depauperamento delle facoltà preposte alla comprensione del “segno di musica”. In quanto divenuti schiavi di Mammona, mostricini alle proprie mostruosità, gli uomini si procurano il biglietto per l’Inferno, ove “c’è pianto e stridore di denti”. Il male ed il peccato si consumano in relazione a “dispercezioni uditive” che costringono le persone ad adagiarsi, vita natural durante, su falsipiani menzogneri, che sono controproducenti e sintomo di colpevole sprovvedutezza. Per responsabilità oggettiva del “trascorrere dei secoli”, sulle deboli porzioni neurali della nostra cascante memoria, abbiamo dimenticato di tradurre, per atrofizzazione dei timpani, le diafane fattezze del mistero, riuscendoci indigesto l’ascolto di musiche rivelatrici di antiche risposte ai dubbi, come accade per “Koto Kumiuta”, ciclo di canzoni accompagnate dal koto (specie di liuto) di maestri giapponesi del XVII e XVIII secolo (cfr. LP 1979 et. Albatros - VPA 8454). La conduzione della propria vita negli esclusivi corridoi della materia, è causa e frutto del principale, istintivo fraintendimento dell’età giovanile dell’essere umano, in quanto questi può durevolmente collocarsi su posizioni ingannevoli, che tradiscono, pericolosamente e permanentemente, la propria intrinseca natura, composta, invero, sia di materia sia di spirito. Un esempio di tale inganno, e del conseguente traviarsi, è portato da un azzeccatissima “cattura testuale” della musica progressiva d’annata, schiettamente creata da giovani musicisti romani nel 1972: gli Exploit. Nell’album “Crisi” (CGO – fc 1008) essi, coraggiosamente, focalizzano un’ eterna verità, con l’omonimo pezzo spettacolare, che meriterebbe di essere riportato nella sua preziosa interezza, ma che, per motivi redazionali dobbiamo sintetizzare nella frase illuminante: “…non puoi pensare che se vai per un istante con una sconosciuta, hai conosciuto l’amore…”. Ecco la migliore descrizione del peccato, del tranello, e dell’illusione della felicità, scritta da certo Corfull, che, con il portentoso mezzo-canzone, ci riporta, per un grande momento di lucidità epocale, in Ok-Land, richiamandoci le parole sacre di Giobbe: “Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquillamente negli Inferi” (GB 21,13). L’inizio di “Una strana regina” del B. per l’Inf. è, altrettanto, un ampio, spazioso slancio verso i cieli che contornano la terra e sembra il proseguimento della confessione del peccatore con frate Isaia: il senso sostanziale è: “se sai amare, voglio saperne di più perché io non sono capace di tanto, essendo buono soltanto a rubare e ammazzare, non essendo possibilitato ad ingranare atti diversi da questi”. Il colloquio si fa sempre più serrato ed intimo, essendo il frate così umile e pietoso verso il miscredente, da abbassarsi ai suoi infimi livelli di natura traviata, confessando a sua volta che oramai sul pianeta non c’è più nessuno che sappia amare, e che, anzi, il verbo “amare” non viene più utilizzato, in quanto nessuno più ne coglie il senso letterale, a causa dello smarrimento, siderale e criminale, delle nostre potenzialità mnemonico-soniche, cui facevo cenno poc’anzi, in merito alle canzoni giapponesi per voce e koto. Gli uomini sono intrappolati nella morsa della rassegnazione, preda del dominio assoluto di una regina strana, l’Ipocrisia, “femme fatale” che, regnando incontrastata, rende mera chimera la fratellanza e, al contempo , irrealizzabile l’amore, ridotto a ingenua utopia: la matrigna Ipocrisia, schiavizzando ogni cosa e sottomettendo al proprio metro di falsità qualsiasi buona intenzione, ottunde il firmamento e tradisce i suoi interlocutori, mascherando ogni sera il proprio aspetto con mille travestimenti.

 

Gli uomini di buona volontà, perfino, sono presi in trappola e ingannati da tale sembianza cangiante, subdolo mutar delle apparenze, finalizzato ai suoi astuti trabocchetti. Ma la speranza nel Bene è l’ultima a morire e, al termine del brano, il frate indica lo spiraglio di una salvezza agguantata in extremis. Il senso è: “tu, empio individuo dagli innumerevoli, abominevoli misfatti, in definitiva sei uguale a me, debolissimo rappresentante di un clero soggetto al peccato…probabilmente tu, essere meschino, con il sacramento della Confessione, senza saperlo, ti sei guadagnato la salvezza, purificandoti l’anima attraverso il pentimento dei peccati, che ha attratto la misericordia divina: in questa vita, dunque, l’hai spuntata tu, e forse hai riconquistato il salvifico perdono del Creatore, che ci attende nell’al di là per il Giudizio Finale.” Ancora organo, synt e pianoforte coordinati dal saggio tocco di “Baffo” Banfi e Giuseppe Cossa, conducono la trama sempre più penetrante, sostenuta dal flauto e dalla voce di un Claudio Canali gigante, egregio anche nelle pause improvvise, negli arresti vocali istantanei, che fanno deliziosamente sincopata l’azione musicale d’ensemble, di questa eccezionale formazione italiana. La parte conclusiva del brano è una tarantella che sembrerebbe appartenere più al repertorio degli Osanna che non alla cultura melodico-tradizionale di un gruppo settentrionale come il B. per l’Inf.: epperò sta qui la caratteristica del prog : saper superare le barriere regionali e confrontarsi, assorbendole, con ogni espressione musicale del globo terraqueo, trascurando i limiti dei pregiudizi asfissianti, di ottiche ristrette. Una mistura di paganesimo e cristianesimo tinge il quarto brano, “Il nevare”, accreditato a “ G. C. Cappellini – O. Trimboli “, in cui l’uomo viene ad essere indicato come ago della bilancia nei delicati anfratti del proprio destino, sul quale incombe, pur sempre, una decisione finale dall’Alto: è provocatoriamente posta in risalto la nicchia riservata ai comportamenti probabili che saranno mantenuti dinnanzi agli esiti della piccola guerra che forse si combatte anche in cielo. Il lancinante urlo della coscienza “…e tu cosa fai?” , si pone favorevolmente sul ciglio della Storia, a vantaggio di chi è padrone delle proprie potenzialità e del coraggio di intraprendere le sue scelte, con la benedizione di quella libertà irrinunciabile che risponde al nome di Libero Arbitrio. Anche se , orrorifica influenza degli atti umani, si slancia agli astri sentimentali quel verso , a metà tra tempo e non tempo, che strappa la pelle : “…ho visto un nugolo di uccelli neri, creature umane dagli occhi umani…”. E’ il limite dell’autocoscienza, che non riesce a liberarsi del complesso della mancanza di spazio “metafisico” nel quale potersi esprimere: “…cercavano un campo con un po’ di grano, per lunghi mesi cercheranno invano…”. La voce di Canali si riscopre eminentemente fosca, truce direi, travasata e plasmata sui timbri metallici della strumentazione dei compagni solidali, un basso urticante, una chitarra ustionante, una batteria martellante ed incontrollata, un keyboard sempre avviluppato dalle nebbie invalicabili di una magia ostentata al parossismo. Ci siamo subito avveduti che gli schemi del rock, semplici ed efficaci insieme, hanno, grazie allo spirito aggiuntivo degli innesti progressivi irruenti e sagaci, restituito ai linguaggi della musica giovanile quell’immediatezza creativa equilibrata e spontanea che ha risposto fedelmente alle esigenze professionali di qualità che il pubblico ha sempre manifestato di apprezzare, specialmente nei raduni live. La musica del B. per l’Inf. è l’esempio incorrotto di una perfezione lessicale raggiunta fin dal tessuto linguistico, appagato con sbalorditivo successo, fin nei meandri del sostegno fono-grammaticale, costituito dalla madre lingua, l’italiano, esattamente adagiata nelle spinose allocazioni e pieghe dell’espressione hard. Il che intensifica, nella riserva regale del Prog d’Annata, gli ottimi risultati raggiunti da altre bands italiane, di fronte alle quali ammirati dobbiamo inchinarci, Gli Atlantide, La Pentola di Papin, Corte dei Miracoli, Lydia e gli Hellua Xenium, Alphataurus, Il Cervello, in testa. Il sintetizzatore di “Baffo” Banfi spezza le regole della sintassi d’avanguardia più ardita, introducendo, nel contesto progressivo, elementi di spicco creativo-sonoro di portata planetaria. L’operazione condotta negli arrangiamenti stupisce per originalità di spunti e soluzioni, facendo dell’opera qui esaminata uno degli albums più belli di tutta la Storia del rock. Lo sostengo senza mezzi termini, soprattutto perché la filosofia coltivata da questa formazione, in questo LP, si attiene ai canoni elettronici dell’effettismo sonoro delle ricerche acustiche più estreme, che in Italia con Battiato e in Germania con i Tangerine Dream, avranno modi e tempi per ulteriori sviluppi, traguardi e perfezionamenti, a metà strada tra il minimalismo di origine americana e il rock. Tornando al nostro disco, si dica che, come insegnato nelle Enciclopedie della Saggezza, il troppo ardire si spegne fugacemente nel gioco fittizio degli alti e bassi in cui è attanagliata la sorte umana, spesso in un fuoco fatuo, fin troppo evidente simbolo della vanità delle creature, paradossale eleganza dei vivi elementi che compongono la totalità del vuoto cosmico: “…quanta gioia da un semplice nevare…”. Il pensiero, forse emarginato, forse abbandonato come”…piccola capanna …nella neve…”, rimane forte afrodisiaco nelle mani del poeta, per distanziarsi dall’inaccettabilità del caduco, dal rischio di imparentarsene irrimediabilmente. Nella fine di una musicata lirica come questa, non poteva mancare l’affacciarsi di un barlume di desio, che azzera gli insorgenti impulsi di disperazione, con l’encomio delle garanzie donate dal colloquio intimo con Dio, quadretto puro e bucolico di una campagna imbiancata dal manto invernale, visione indelebile stampata da qualche parte nelle profondità interiori di ciascun uomo pio: “…lontano un campanile ricordava una preghiera, sui tetti antiche ombre festeggiavano la sera”. Affiora spontaneo un roseo dubbio: . Nell’episodio seguente, “L’amico suicida”, quinto ed ultimo dell’album, accreditato al “Biglietto” sul logo del vinile originale, vengono toccati fragilissimi veli, che risuonano in modo irreale nello spazio-tempo dei cieli d’ogni epoca, sicuro abisso del fallimento consapevole e senza scampo. La caratterizzazione di un brano musicale è direttamente collegata al testo che vi si adagia come su di un corpo voglioso di ricever protezione. Le sfumature, gli intervalli, gli acuti, le colorazioni armoniche, i chiaro-scuri melodici, accolgono, in una scarlatta miscela, i tratti del mosaico che, nell’insieme dell’immagine abbracciante, ridimensiona il singolo effetto, trasportato dalla minima particella di cui esso si compone. Allorché la figura della completa visuale si riconnette ai multi-piani delle accumulazioni sentimentali, depositate negli archivi della nostra chilometrica memoria, succede l’inverosimile, perché spunta, inatteso, un asteroide, esosferico scarto. Laddove poggia il nostro malfermo passo, lì zampilla una fonte di stupore, a formare un torrente di nuove emozioni. Le parole cantate, questa volta stucchevoli ed altamente floreali, destabilizzano le caotiche capacità ricettive del cuore, che scinde nella commiserazione il volto della persona, l’amico, con cui si sono divisi momenti di vita, fluttuati in un compatto impulso d’esperienza.

 

Mai, codesta, si sarebbe potuta immaginare immersa in una fine auto-provocata, il suicidio, atto sacrilego nella distruzione del se’ che tradisce irrimediabilmente l’amicizia e lascia inorriditi, e attoniti, senza respiro, senza cerimonia, con l’amaro del più sordo dei . Per di più si stempera , nella maschera impietrita del sonno nemico, una soddisfatta meta nella baia voluta, agognata e, in macabro senso, violata. Una infame fermezza scandisce i tratti, ormai in sfacelo, del viso amato, e la postuma constatazione giudica inaccettabile il gesto insano che nella morte riposa tranquillo, accomodato in altra postura. I rimorsi appaiono anch’essi disfatti, quali insulsi commenti che, pure, si ribellano ancora al moto irrazionale che tolse l’affetto, ma è breve lo sfogo all’apparire di ogni gestuale irrisorietà. Alla base dell’incontrovertibile decisione distruttiva, stenta a ricostruirsi una plausibile giustificazione ed è l’ombra di un lontano pentimento che ritorna, ad arrossare i volti dei vivi. E’ matematica ciascuna illusione del conforto del destino, che accomuna, ed ogni delusione è vana, quale susseguente, funereo, singulto. Annotiamo, tra i versi eloquenti, cantati con animo partecipato, da grandissimo attore di teatro, da guerriero indomito: “Attorno al tuo corpo c’è, un alone di morte, ti guardo il viso scarno, tu sorridi, sei forte”. La maestà regale del portamento freddo si è conservata, anche ora che è tardi, anche quando il dolore ha fatto suo ogni movimento…:”…il tuo viso cereo, e gli impulsi lenti, le tue labbra scure mi fanno stridere i denti…” . Si percepisce che la vita è fuggita, lo confermano certi segnali che affliggono amorevolmente colui che ti serberà nell’animo, nel futuro traboccante di rimpianto. E’ madre e non madre questa contraddittoria situazione post mortem, e il ricordo degli affetti la ravviva, la tiene in vita, si profila penoso ipotizzare che la tristezza accompagnerà infiniti giorni d’infinito dolore, sempre uguale, sempre inarrestabile, come l’ultimo viaggio. Difficile farsene una ragione, certamente impensabile darsene un’abitudine: “…aspetti pacato la tua soluzione, la tua morte in agrodolce da’ una strana sensazione”.

Per lo strazio subito, barcollano le forze del ragionamento, che si ferma, oscilla, ondeggia, sfocia nelle terre dell’insicurezza del senso, nelle sabbie mobili dell’irragionevolezza: “…tu mi hai chiesto di non piangere, era l’ultimo favore, anche questo ti è negato, caro amico sfortunato”. Ovviamente, il sistema marcio degli uomini che assemblano l’ambiente dell’ipocrisia più sopra narrata, disapprova ciò che hai commesso su di te : “…e il mondo ti condanna e ne parla disgustato…”. La sofferenza smette il magone ed esprime disappunto, secondo il “rebus” di queste parole : . Secondo la lezione del “mors tua, vita mea”, si chiude un LP originalissimo, fonte di arte suprema ed intramontabile. Il re che si possiede dentro, il segreto dei segreti, con cui si suole condurre la propria esistenza su questa regione desolata del cosmo, è , secondo l’insegnamento racchiuso in una così rara opera di bellezza, la massima guida che dall’interno di noi si espande all’esterno, fino a raggiungere le imprendibili sommità dell’universo del sapere umano e delle conquiste spirituali, di cui non è dato sapere più di tanto, da cui non è conveniente evadere. Sta a noi, e soltanto a noi, tale è il messaggio, saper fare della nostra vita un terreno assolutamente infecondo per atti di schiavitù provenienti da persone malvagie e prive di scrupoli, al fine precipuo di annientare ogni proposito di realizzazione del male a nostro e ad altrui danno. Ripartire dalla consapevolezza di vivere nella società dei consumi (Bene) ove, ad ogni occasione viene sordidamente impiegata, senza alcun rispetto, l’immagine a fine di sfruttamento pubblicitario di categorie di persone di elevato spessore culturale e spirituale (Male), che non meriterebbero alcuna forma di parassitismo, delle quali, invece, si fa scempio illimitato, come accade per i frati ed il clero in generale, messi alla berlina in sordide immagini televisive, esaltazione inappagante di valori materiali, afferenti volgari prodotti di consumo, al cospetto di ben altri valori, degni di rispetto, o comunque di indifferenza da parte di chi non ha fede cristiana, e sicuramente, non possiede un minimo, civile decoro.

La fine della Trident tolse, praticamente, ogni entusiasmo di carriera ai ragazzi del B. per l’Inf., i quali, ciò malgrado, avevano ancora attinto dalla propria creatività, elaborando almeno 7-8 brani per il secondo album, che non vide subito, ossia nel periodo 1975-1976, la sperata pubblicazione.

La storia si confonde con la leggenda e, come sempre, ai posteri rimarrà l’amara soddisfazione di recuperare quell’irresistibile sound di tastiera, flauto, chitarra e basso, mescolati in una pozione portentosa, in grado di sfidare nuovamente le intemperie temporali e di vincere i pregiudizi orbi e mattacchioni, nemici della buona musica. Il rocambolesco recupero, da parte di privati e di collezionisti, di una audio-cassetta rimasta chiusa per diciassette anni in un armadio, permise nel 1992 alla Mellow Records di pubblicare, sia in CD sia in LP-limited edition, il secondo lavoro del B. per l’Inf., dal titolo “Il tempo della semina”, opera assolutamente interessante, anche se non perfettamente rifinita ma, non per questo, meno affascinante. Mi ha gentilmente dichiarato, di recente, Fra’ Claudio Canali: . La title track, quella di apertura dell’album, è subito una grande sorpresa, poiché Claudio Canali non canta il testo, molto profondo e misterioso, limitandosi a recitare una prosa ermetica piuttosto fuorviante, spiazzante: essa, in realtà, finisce per inchiodare l’ascoltatore, esterrefatto, a una ridda di ipotesi su alcune verosimili chiavi di lettura. Si può pensare a teorie alchemiche, oppure a profetici interrogativi intorno agli itinerari del lacerante duello, da affrontare in punta di piedi con madama Fortuna, così che sembra di trovarsi di fronte ad una immensa, sinistra spelonca, con lo stupore e l’angoscia d’ entrarvi, consci che in essa possa custodirsi la definitiva risposta, amletica, alla nostra insostenibile sete di appurar Verità: “E come lo specchio mostra agli uomini le immagini slegate dell’apparenza, le tue risa profumate, i tuoi gesti che ci ritmano il passo, ci mostrano quanto sarebbe duro percorrere una strada senza fine…”. Si avverte dolciastra l’atmosfera introduttiva dell’album postumo, ricavandosene impressioni fortissime di gioia mista a perplessità, comunque corroborate dal fragore di un’arcana dimenticanza, di un logos anacronistico, probabilmente legato al fatto che una lirica talmente suggestiva, recitata oscuramente da Claudio Canali, possa provenire da molti anni-luce, da lande sconosciute, forse, in cui tutto, anche il successo del primo long playing, sia rimasto in formalina, in attesa che qualche anima sensibile si accollasse l’onere o la smania di rispolverare con cura la soffitta piena di antichi balocchi. Un senso di fascino, allora, sorge spontaneo nel rendersi conto che, in effetti, sia poi trascorso un tempo lunghissimo, durante il quale queste emozioni si sono sospese in un Purgatorio scandito dai rimorsi, quasi per maturare, per essere gustate con calma, più tardi, a tempesta passata. Secondo il mio modesto pare, la seconda parte del testo in esame, rivela inaspettatamente la voglia di prendersi tutte le rivincite, tutte le soddisfazioni della gloria, negate ingiustamente al gruppo da una serie sfortunata di circostanze casuali quanto barbare, prima tra tutte la chiusura della Casa Discografica Trident, per “urgenze” di carattere economico. Si nota una rabbia repressa nelle seguenti parole, che denota l’intento di scavare nella psiche di uomini delusi dalle ingiurie del caso, anche se, devo sottolineare, non sfugge tra le righe, l’integrale carica di un proposito di riscatto, sopito nei velenosi capricci di qualcheduno, reo della loro rovina, sentita come prematura e inaspettata: “…perché ti dovremmo ancora sopportare, non aspetteremo un’alba su misura per abbattere le sbarre della tua prigione” . E’ un’aperta dichiarazione di guerra, una vera ribellione a quelle che sono state accusate come disperanti umiliazioni, ingoiate come “castigo di Dio”. A causa di tale, esasperato stato d’animo, si arriva addirittura a rifiutare il disegno che ha portato a disgelare le deformazioni dello specchio sulla realtà: “e nascere senza essere plasmati dalle tue lunghe mani…” , fino all’agonia estrema di consumarsi in azioni opposte al progetto iniziale, degenerate in atti di giustizia sommaria: “…e gli sguardi che ti conoscono e che avresti dovuto accecare, piuttosto ignorarli, si prenderanno il giusto dove vorranno sia”. Sinceramente il brano si illustrerebbe da se , più che un “tempo della semina”, un attimo di follia, esplosa la quale, si esalta un piano scoordinato di mille confuse recriminazioni che adombrino ampi sfoghi, scellerate imprecazioni, conati vendicativi su un passato da deplorare.

Il timbro vocale di Canali pare modificato alla radice, straziante, irriconoscibile com’è, sicuramente filtrato da un megafono o apparecchio simile. Il tono tiratissimo, si badi bene, giustifica ampiamente l’astio profuso nella tenebrosa recita, le corde vocali si fanno complici di una globale mestizia che sfocia nel rantolo, incartapecorito dalla cattiveria usata per esprimere odio e dissapore, voce a tratti disarticolata nelle sillabe spietatamente mutilate, tronche, a conferma della grande arte canora di Claudio Canali. Più tardi il cantante si pentirà di aver partecipato alla creazione di una canzone così dark e, per riscattarsi , questa volta su piani diversi da quelli meramente artistici, intitolerà “Il tempo della semina” la propria intricatissima autobiografia, ricca di tutti i risvolti , di ogni vicissitudine ed esperienza, che lo convinsero a vedere in essi i segnali della via monastica, e a prendere gli abiti religiosi, per diventare umile fraticello offerto totalmente al Signore, a suggellare, con un esito della sua vita abbastanza suggestivo ma profondamente avvertito , i richiami di una sincera vocazione. Ci sembra che l’uomo mimetizzato dai panni del cantante bravissimo ma molto turbolento sul palcoscenico, si sia finalmente rivelato coi panni di un re, del “recitante” che lascia per sempre il guscio dell’originario sito formativo, carico di peccato e di vita disordinata, per passare a regime inedito, regolato, sull’osservanza del Vangelo, dalla preghiera, dal pieno dominio di se’, nell’oceano di infinito amore, nella massima umiltà di servo dell’Altissimo, irreversibile distacco dalla strada tortuosa e malsicura di un illusorio successo. Chiarissima è, in proposito, l’analisi retrospettiva che scaturisce dall’ultima epistola trasmessami da Fra’ Claudio: .

La parte introduttiva del brano, segna una godibile escalation di bordate tastieristiche, incolonnate sull’anticipo di un poderoso rullare di tamburo, sul quale va ad innestarsi, tremolante ma perspicace, una chitarra elettrica nervosetta, come da miglior copione”prog”. C’è una ripresa del motivo, dopo poche battute improvvisamente interrotte, che si inerpica su su nel cielo stellato, un ripetitivo, accattivante motivo, dominato completamente da suoni di corni inglesi che preludono, nell’odore boschivo del sangue, alla crudele caccia alla volpe, qui identificata in una inaccessibile parvenza di verità, fatta straccio dai testi impudenti e spudorati. Il finale è corroso da un suono terremotato da una chitarra basso svincolata dai test dell’alcool, ma maneggiata a mo’ di synt, che tutto ridimensiona a insopportabile retata, mentre il flauto fa coda, invitando il Gem di “Baffo” Banfi a rapinare la Banca dell’Armonia, cosa che riesce impeccabilmente, senza alcun ferito.

Il secondo episodio, brevissimo e ritornellistico, “Mente sola-mente”, fa crollare inesorabilmente l’impianto logico della precedente traccia, in quanto fa intendere che la Storia non è poi fatta soltanto di conquiste scientifiche riconducibili a questo o a quel periodo e, tanto meno, alla soluzione di problematiche contingenti e conflittuali, collegate a questioni temporali o spirituali attinenti alla detenzione del potere, imputandosi, al contrario, il problema fondamentale dell’umanità, alla natura stessa dell’uomo: questa non può affatto prescindere dal rapporto con una precisa entità superiore, con la quale dialogare per mezzo della mente, vera antenna interiore, deputata alla ricerca di uno status ideale dal quale conseguire un progresso integrale, imperniato sull’aspetto tanto materialistico quanto spiritualistico, specularmente, quindi, alla circostante Natura, dalla quale mai e poi mai giungeranno indizi sull’origine della specie. In definitiva, l’esistenza umana è concepita come una catena di misteri insoluti , destinati a rimanere tali fino a quando si pretenderà di risolverli con i mezzi razionali dei quali l’uomo stesso dispone: sulle origini della propria specie non si può dare un’accettabile ipotesi con la sola mente che, pertanto, in quanto sola, mente a se stessa. L’andamento musicale è sinusoidale, rallentato come la sequenza di un film stuprata dalla moviola. Il pezzo coincide con l’intento di declamare, in stringate ma efficacissime battute, una conclusione filosofica di quotidianità estetica, utilizzando uno schema ritmico alquanto cadenzato e sognante, sulla scia di una vera e propria interpretazione ingannatrice su quello strumento, di cui ci si vanta troppo e troppo spesso, la mente, che, in ultima analisi, servirebbe unicamente a fare aprire gli occhi, fisici ed interiori, sulla precaria condizione in cui l’uomo verserebbe, senza far ricorso all’aiuto dell’Entità, alla quale andrebbe, invece, lasciato libero permesso di circolare nel vano mentale: soltanto se c’è Dio, l’uomo sconfigge la solitudine. Viceversa, se l’uomo rinuncia a Dio, rimane solo con la sua ragione e non fa molta strada, poiché non ha nessuna altra forza all’infuori di essa, per convincersi del suo proprio girare a vuoto. In secondo luogo, la ragione si arrende alla propria impotenza, prostituendosi a Falsi Miti, visti come una serie di Entità Illusorie che conducono l’uomo sulla strada della Perdizione, e quindi al fatidico vicolo cieco. Condurre l’esistenza alla ricerca di una verità di se stesso e dello scopo della vita, non sarebbe, insomma, un girare a vuoto, ma un riconoscere che, grazie a uno sforzo che esula dalla ragione, ma che dalla ragione parte, l’uomo trova e da’ realmente una giusta direzione al suo breve percorso terreno. Il canto, in questa occasione, assume la forma di un sussurrato, di un sospirato, a velare, con delicatissimo stile, una verità da non urlare e diffondere, per pudore, e rispetto alla sua infinita bellezza: “Mente sola cosa pensi, mente sola cosa cosa vuoi, mente sola cosa cerchi, mente sola cosa fai, mente sola cosa provi, mente sola-mente, sola-mente…”. Irraggiungibile è il motivo di sottofondo, guidato dal mini moog, che eccede in sinuose linee melodiche, a sovrastare e smitizzare le migliori istantanee fissate nei ricordi di casbah, anche se non sarebbe azzardato accostare l’ingresso della traccia ai fantastici intarsi di “Am I going insane (radio)” dei Black Sabbath dell’album “Sabotage” (1975), pur restando carente, in questi ultimi, l’irresistibile atmosfera “da casereccio genuino”, tipico della “fiera del bestiame”, rimarcata genialmente da Canali & associati, in chiave artatamente agreste, da bagordo rurale.

 

La tappa successiva è un viaggio nei cromosomi, nei neuroni, nelle nostre possibilità di cittadini del mondo, di uomini semplici che vivono, lottano, pensano, protagonisti della vita, non parassiti, protagonisti del creato libero che è libertà, che dona libertà. E’ un brano, “Vivi lotta pensa”, che rivela il progetto totale, del grandissimo gruppo lombardo, di scardinare le barriere sociali, nazionali, interplanetarie, allo scopo di erigere sulla vetta più alta della civiltà, il simbolo della dignità umana, il vessillo della fratellanza universale, recepita quale dono di un tutto unificante. L’impegno di “essere progressivo” distingue l’uomo ideale dal soggetto comune. La corrente, risvegliante del “prog”, impedisce che l’uomo comune subisca una passiva influenza dal potere, dagli ingranaggi stritolanti delle mode, foriere della degenerazione morale e sociale. Assegnare l’individuo ad una esatta collocazione culturale auto-gratificante, e finalizzata socialmente ad una umanità compatta, senza più barriere politiche, ed incurante dei confini geografici, librerà la persona, depurata dai condizionamenti perversi dell’omologazione consumistica, verso la dimensione della presa di coscienza del proprio ruolo nella vita biologica (è il “Ti sei mai chiesto quale funzione hai?” di battiatiana memoria). Allo scopo di conoscere, insomma, le proprie aspirazioni, e di lottare, anche e soprattutto, contro i propri limiti, per tradurle in realtà. Uno “spread” vivificante, per avvolgere, nello scialle interstellare, il proprio corso a quello dell’espansione cosmica, intesa come espressione di una maturazione spirituale anticipata sulla propria evoluzione di pensiero, una crescita della particella nell’oceanico senso della vita. La melodia si incastra sotto le ruote del ritornello, che non risente più dell’impatto ritmico, ed affida il crescente apporto percussivo alle tastiere monitorizzate, all’interno di un’insolita sezione vocale che si dilata pian piano nella esacerbata presenza sloganistica, scaturente da un testo condizionato da un vocativo, anzi, da un imperativo dai connotati inauditi. E’ una scheda che risalta negli annali della canzone, ancora oggi, per il fatto che ferma la mano sulla previsione di una colpevolezza, che pesa e stordisce, votata, così com’è, all’urlo di una coscienza ormai in conflitto con il se diviso, frastornato, impacciato, un acuto che esce allo sbaraglio, un’appello inflitto alle stelle: “Uno è nato a Cuba, un altro a New York, in tutto il mondo nati come noi, da una donna e da un uomo, noi, dalla donna e dall’uomo, noi …” . Già da questa “angolatura politico-biologica”, si intuisce la costante della proporzione planetaria della relazione tra uomo e donna, a prescindere dalla appartenenza a una razza, il singolo individuo come tassello di un organismo planetario che respira, che è cosciente, che ama, prodotto intimo di due soggetti uniti nell’amore fisico e nell’amore influenzato da Psiche. Insostituibile componente, proiettato nelle sfere alte, interminabili del Caos, ove c’è ancora spazio per un dubbio, orpello d’una riflessione , figlia dell’interrogativo più ricercato nei fondi del logorroico silenzio: “…poi ti guardi, scopri sei diverso e ti chiedi , dai la colpa al mondo, dai la colpa al sistema, vuoi!”. La differenza tra il SE e il resto della gente, la si realizza concretizzando il contrasto tra il SE’ ed il resto del mondo, aggredendo quest’ultimo come una fiera assatanata che ti assale, che ti emargina e non ti accetta perchè interlocutore scomodo, reietto, indigesto…Il finale è concettualmente traboccante, travolgente poiché viene minata, nelle fondamenta, la saga delle congetture post-moderne, pregne di raziocinio circa i destini che accomunano i naufraghi sulla scialuppa delle illusioni: “…troppi nascono nel fango, troppi crescono piangendo, troppi vivono sperando: è tutta gente che vuole come noi…”. La sorte unifica ed associa, livellando, con la lama del suo inaccessibile criterio, perfino le classi, smussando i bordi in eccesso, le pretese vane e, pertanto, dulcis in fundo: “Se tu sei convinto, se sai quello che vuoi, cresci, lotta, pensa come sai”. Vale a dire, . Si annusa, comunque, la distillazione delle idee, un attimo prima della rassegna delle chances offerte, ed è bello perché, attraverso l’ascolto di strani cassoni di suono per voce, si captano pagine e pagine di assennatezza, derivandone una indicazione prossima a: . La selezione deve essere appannaggio di te, è strumento che diviene sensato solo se viene applicato da te stesso e a tua discrezione su di te, in linea con la tua realizzazione di individuo. A condizione che, una volta nelle tue mani, tale strumento, fondamentale per la tua personalità, sia saggiamente adoperato, senza altrui nocumento. Esclusivo mezzo per immettere una civiltà nella Civiltà, (si riveda, appena possibile, l’eloquente serie di immagini a fumetto del film “The wall” dei Pink Floyd e si faccia l’impossibile per rileggere, nei tempi correnti, “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley).

Il quarto titolo, “L’arte sublime di un giusto regnare”, da’ un saggio dell’epoca medievale, in cui dominio assoluto era riservato al Signore del Borgo, padrone di dettare legge sui sudditi, vassalli rassegnati ad una serie di angherie, imposte crudelmente. Il flauto si distingue nel dipingere tale condizionamento sociale, caratterizzato dai vari personaggi, stretti e slegati ad un tempo, in una ballata, vivace per baldoria e rimarcata spensieratezza, quasi a cancellare, deviando dalla triste realtà delle cose, la pressione delle tribolazioni in cui naviga il popolino, i cui singoli membri subiscono passivamente il rango di eterni perdenti e umiliati, severo copione per saltimbanchi, da baraccone da circo. La dose di “allegria forzata”, concessa ai sudditi, integra prepotentemente l’arte di regnare in maniera giusta ma arrogante, paziente ma cinica, tollerante ma sadica, sì da permettere l’esatto equilibrio nei rapporti della comunità, di modo che a ciascuno spetti la propria parte, sublime o bassa che sia. Aulico è il prologo, con un arpeggio telecomandato dal clavicembalo inviperito, inclinato costantemente sulle volute flautate delle temerarie architetture che si presentano ai nostri occhi all’insù, spietata descrizione della condizione umana, diffusamente angosciata dal prepotente: “Godo la mia comodità, specchi, arazzi e nobiltà, dame, giullari e cani, ori tra le mie mani, questo sì ch’è regnare, gioia nel dominare ecco…” . I ritmi sono particolarmente esasperati, al pari dei soprusi “elargiti” ai poveracci dal Dominus, la strofa è lì lì per esondare a causa di una cadenza volutamente sovrabbondante e scoppiettante, che va a smarrire, nel convulso finale, il filo sottilissimo dell’apporto letterale, e direi vocale, che però ripara stupendamente, grazie all’abilità del cantante, sempre mattatore, sotto improvvisate licenze di suoni-vagiti, appena smozzicati tra le labbra, dalle quali sortiscono, doppiamente voluti, strilletti, risatine, acuti di felicità strozzati in gola, bruscamente frenati dal successivo quadro sinottico-sonoro, commento visivo-sarcastico delineante, sempre a tinte forti, l’estremo disagio in cui versa la sudditanza: “…ma guarda questi poverini, tutti pieni di bambini, non sanno più che cosa fare, sanno solo procreare, beata serenità, senza alcuna responsabilità”.

 

Sul piano prettamente musicale, si verifica un simultaneo dissanguamento ritmico, a braccetto con la sconsolante illustrazione dei miserabili infeudati, messi alla “gogna canterina” da un indomabile Canali, in spolvero di Medioevo (cfr. però il volume “Luce del Medioevo” di Regine Pernoud – Parigi – 1944, in cui, controcorrente, viene dimostrata la tesi “La leggenda nera del Medioevo è totalmente ideologica”). A colui che domina, non sfugge occasione per affibbiare, anche a parole, un duro giudizio sulla “serenità priva di responsabilità”, nota di degrado animalesco, in cui è avvinghiata l’istintività dei pezzenti sottomessi, protagonisti della loro inestirpabile incoscienza. Operata sarcasticamente la cruda riflessione sul mondo delle miserie umane, i toni del brano si ravvivano nuovamente con l’auto-esaltazione del sovrano, che, ancora in prima persona, si immortala in sconcertanti proclamazioni sulle proprie capacità di regnare. Egli si lascia sfuggire la rivelazione del segreto di trovarsi su altri livelli di vita, su ben diverse occupazioni, su differenti modalità di trascorrere il tempo, doni inaccessibili al volgo: “…sono l’eletto, son nato Signore, voi che di me non potete sapere quanto importante sia perseguire l’arte sublime di un giusto regnare”. E’ il tripudio di una vanteria di classe che non conosce pudore, portato ai sette cieli dal soggetto stesso che cavalca la tigre del potere assoluto. Siamo sicuri di avere di fronte il protagonista del massimo fruitore delle potenzialità che offre la dimensione materiale, oltre l’eccesso: “ Cacce coi falchi da organizzare, le danze, i costumi, le giostre, i tornei, tasse-tributi da controllare, Io il Signore”. Non solo per il fatto di avvicinare, per istrionismo e carattere, (non per timbro vocale) Claudio Canali a Ian Anderson, pare davvero, qui come mai, d’avere “Jethro Tull fatti in casa”(sui vetrini biologici del microscopio, mi avvedo, dalla colorazione delle cellule sonore, che l’estro del gruppo lombardo è accostabile alle sonorità tulliane rintracciabili ne “The Chateau D’Isaster Tapes”, risalenti al 1973, primo dei due compact costituenti “Nightcap”(Double CD – 1993 – Chrysalis – 7243 8 28157 2 3 – made in Holland). Io, personalmente, sono fiero di potermi sorbire “La sublime arte di musicare” del Biglietto per l’Inferno!!!!!!! Nel loro globale messaggio è insita una costante ricerca dei significati tenuti argutamente in ombra dalla evoluzione della Storia dell’Arte: ciò è stato evidentemente compreso dai titolari del marchio “Trident” che, a distanza di tanto tempo, hanno creduto di fare propria l’iniziativa di “culto editoriale” che aveva encomiabilmente intrapreso la Mellow Records, ristampando su supporto digitale, l’album “Il tempo della semina”: esistono dunque due edizioni di questo irrinunciabile CD, uno della Mellow, e uno della Trident. La duplice iniziativa di pubblicare, nel tempo, il secondo lavoro del B. per l’Inf., la dice lunga sulla concreta validità artistica dell’opera, che è arduo ed avventato considerare inferiore all’album d’esordio, considerando le difficoltà storico-ambientali in cui è stato concepito “Il tempo della semina”. In quest’ultimo, in sostanza, si registra solo apparentemente un declassamento formale e contenutistico, respingendosi, qui ed ora, ogni catastrofica prospettiva sul prodotto finale, che certi criticoni farebbero sconvenientemente bollare “balbuzie musicale”. Invero, il puntiglio di raccontare, facendo ricorso agli schemi classici del “rock”, in questo CD travalica la pura dimensione delle immagini insite nel racconto, reinterpretate secondo canoni espressivi personalissimi nel pathos oggettivizzato che, al di là dei fatti ivi narrati, sottendono a precise deduzioni morali che, a loro volta, incitano ad una esemplare lezione ricavata direttamente dalla Storia, così come letta, anzi riletta, dal rock, e che il rock non scalfisce ma potenzia.

Passando per le diverse fasi che materializzano l’avventura di un gruppo così apprezzato nel giro della prog music, si osserva lo sviluppo continuo dell’insieme artistico-concettuale da un piano “orchestrale”, consegnato a persone consapevoli della loro statura di promotori del rock di qualità, a un piano reale, intrecciato a uno scavo mistico profondissimo, accompagnato ad un ammirabile sacrificio della prova nelle esperienze della vita di Claudio Canali, trivellatore di verità cristiane lontanissime dagli accessi estemporanei delle sale di registrazione e delle performances dei festivals del proletariato giovanile, in cui era coinvolto, insieme con diverse altre italiche bands, il B. per l’Inferno. Intendiamo riferirci specificamente al sottile gioco poliedrico, di stampo educativo, che viene gradatamente a districarsi, dalla complessa matassa artistica esplicitata nelle forme musicali del gruppo, in una esternazione di zone d’ombra e zone di luci che, evidentemente, come nella pittura dei grandi, non sono messe lì a casaccio, costituendo, a onor del vero, impalcature cruciali della struttura portante. Il fatto stesso, molto eloquente, che Klaus Schulze, ex Tangerine Dream, incenserà, dal 1978 al 1981, ben tre LP di “Baffo” Banfi nella sua dimora tedesca “Innovative Communication”, non è mero dato cronachistico, da utilizzare come inutile riempitivo degli annali dell’elettronica, essendo esso, al contrario, sintomo di un fattore basilare nell’economia sintattico-musicale del gruppo d’origine del bravo tastierista italiano, il B. per l’Inf., il cui primo LP, non dimentichiamo, entusiasmò non poco l’artista tedesco. Con il senno di poi, detto onestamente, non pare esserci stacco ideologico tra l’album Trident, il maggiormente diffuso ed apprezzato, e “Il tempo della semina”, poiché seguendo il tracciato artistico e umano di Canali, oggi frate eremita, abbiamo compreso dettagliatamente la ratio enigmatica di una rarissima metamorfosi dell’anima, attuatasi ai nostri tempi in un grande musicista toccato dal fascino delle vette dello spirito, raggiunto dalle intensissime emanazioni di una fede solidissima.

 

Egli è naturalmente musicista tutt’oggi, a differenza di innumerevoli artisti che hanno rinnegato, nel cambiamento della visione filosofica ed esistenziale, le opere giovanili, Claudio Canali non ha rimosso in alcun modo quanto realizzato nei dischi del B. per l’Inf. Egli ha chiaramente spostato l’asse della propria aspirazione dalla musica a Dio, ma continua a sentire, dal profondo del sentimento, l’amore per il raggio musicale interiore quale eccelso linguaggio di ringraziamento a Dio per i risultati della “conversione del cuore”. Un uomo provato da eccezionali traversie di tutti i tipi, illuminato da una luce strana ma edificante nel vortice delle difficoltà più impensabili, custode fedele delle vibrazioni rock da cui era stato scosso, fino al punto da arrivare ad essere esempio di artista nazionale di un’ espressione giovane ma antidivistica, potente e fragile al contempo, era destinato, finalmente, a trovare nel divino la risposta ad ogni interrogativo. Giunto, a conclusione del proprio interminabile peregrinare, al sicuro rifugio del suo eremo, ha realizzato di essere stato oggetto di un’attenzione esclusiva dall’Alto, avendo egli colto il senso totale del Mistero, un approccio che noi vediamo, volenti o nolenti, e ciò malgrado dolenti, dall’esterno solo superficialmente, in quanto peccatori. Egli è in rapporto con una diretta concezione della Creazione, vive ogni momento della giornata a contatto con la natura e prega incessantemente per questo impagabile privilegio perché gode della raffinatezza delle risultanze emozionali cui, nei posti incontaminati della meditazione, è concesso di intravvedere la predisposizione della parte invisibile, l’anima, per la Vita dopo la vita. Da essenziale paladino della musica prog italiana, è stato all’altezza di render chiaro al mondo il recondito significato delle”lande rock” possedute dal B. per l’Inf., assumendo, su di se, la responsabilità di indicare il totale coinvolgimento della sua persona, in un entusiasmante programma di inaudite ricchezze di umiltà e amore in Cristo Re. Egli, che ha umilmente risposto alla Grande Chiamata, ha saputo risanare e ricostruire ex novo intere parti del LP “Il tempo della semina”, infondendo nell’animo umano, vero sensore dei mutamenti dello spirito, la vivificante messe delle reazioni emotive, bilanciate dal suo IO, attratto dalla irresistibile calamita divina, arricchendo, in tal modo, la copiosa mole di accadimenti, già travagliati per il vacuo ed effimero successo, in una fantasmagorica apertura autobiografica, tuttora in attesa di pubblicazione, enfia di semplicità e modestia, per additare la mirabile piega che è riuscito a conferire alla sua trascorsa, disordinata, vicissitudine terrena: da artista pop a “pescatore di anime”, il balzo è stato ineccepibilmente alto. E’ ammaliante immaginare che un semplice frate sia stato l’uomo capace di intersecarsi e confrontarsi con mille multiformi azioni, tra le quali il canto di un testo contenente l’ansia tradita di arrivare alle radici dell’essere, alle sue inconcludenze , alle sue titubanze, alle rivelazioni del suo unico e possibile nutrimento, prospettive distintamente raccolte all’interno della melensa ballata, mesta quanto serve, “Solo ma vivo”, quinto baluardo di questa insolita, seconda opera, elevata una spanna sopra l’assordante tuono: “Non cercare solo carità, cosa provi come vivi, nebbia, vento nelle tue mani, cosa darei solo ma vivo”. Sentiamo, dalla viva voce di Fra’ Claudio, che cosa ricorda sulla nascita del brano: “Solo ma vivo”, canzone dedicata a un clochard, o meglio, una presa di coscienza su uno dei fatti problematici che ruotano attorno alla comunità, alla società. Volevo bene al clochard “Cesarino”, che vestiva quasi come me, quando mi esibivo in concerto. Era un personaggio particolare, che io difendevo sempre nei bar, ero sempre pronto ad offrirgli una sigaretta, precedendo puntualmente la sua richiesta, per questo mi voleva molto bene, specie, poi, quando, poche volte, a dire il vero, gli offrivo il bicchierino.

 

Il giorno in cui egli scomparve, siccome era conosciuto da mezza città, volli ardentemente scrivere “Solo ma vivo”, dedicandola a lui. L’intenzione era di realizzare una “meditazione”, vederlo ancora una volta nell’immaginazione, e toccava sempre le corde del cuore, quelle più vicine al sentimento della compassione…e poi volevo, sull’altro fronte, rimarcare il senso di colpa collettivo e personale per il misero stato in cui versava, poverino. Egli aveva scelto di “scendere dal mondo”, ma costituiva un bel peso sulla coscienza di tutti gli appartenenti alla comunità, che in fondo nutriva pietà a vederlo trascinarsi così. Egli, per tutti era, però, un dolce peso, perché, essendo amato senza eccezione alcuna, era visto come un famigliare malato, bisognoso di cure. Anch’io ora ho lasciato il mondo, ma l’Eremo non è un rifugio, è una trincea, dove molti vengono ad attingere acqua pura, e dove le nubi dell’Amore passano e portano pioggie benefiche, nei campi riarsi del mondo.”

In questa poetica della disperazione, forse celebrazione del rimpianto per non aver potuto venire incontro maggiormente alle esigenze di un amico così abbandonato, il monologo prosegue, mettendo l’accento su precisi significati, tra una tostissima folla di scorie celebrali: “Vivi solo vivi dentro, qual è la tua realtà, avere molte strade, avere poche mete, scegliere di lottare o lottare per dover scegliere, disteso nel tuo quadro migliore, ti senti con la tua ragione” . “Vivi solo vivi dentro”, sta ad indicare il drammatico isolamento di “Cesarino” dal mondo dalle convenzioni sociali. Da questa presa d’atto circa la sua precaria situazione, emerge l’impulso a proteggerlo istintivamente, per cui l’espressione “Cosa darei” vuole sottintendere il desiderio “Cosa non darei per aiutarti”. “Cerca di dormire, non svegliarti se puoi ora, dormi, dormi…”. Fotografie scattate rigorosamente, in cronologia, nel passato recente, vengono fatte confondere con il sogno nell’album dei ricordi, scompaginate da un motore contrario al tempo, in verso inverso, vi assistiamo con poche speranze di recupero, in viaggio senza il bagaglio dimenticato, passerella di sensazioni inacidite dall’età, episodi singoli a grappoli, fissati nella memoria, per sempre: “Era quasi un augurio per una dimensione di non-dolore come il sonno, poiché le brutture di questo mondo determinano già la conseguenza di moltiplicare i barboni come “Cesarino”, infelici sfornati a dismisura per le ingiustizie imperanti, e l’inciso “ne esistono già troppi di me” lo avrebbe fatto ripiombare nel dolore che lo spinse a scegliere quella sua disperata soluzione di vita”, prosegue Fra’ Claudio, “Disteso nel tuo quadro migliore” , “disteso, perché era la sua volontà “distendersi”, cioè abbandonarsi, lasciarsi andare con una certa rassegnazione di sconfitta ai mali che lo assillavano, quindi un auto confermarsi, come in una raffigurazione pittorica, “nel suo modus vivendi”. “Aspettare e non vederti quella sera, in quella strada, forse c’eri già, forse sei migliore di quanto si credeva…”. Subentra molto spesso un presentimento di morte, nel non verificar con gli occhi la solita, abituale visione, e qui, da un lato il terrore che fa la parte del leone, o comunque nei luoghi più esposti agli strali dei rimorsi, sede inopinata dei complessi foraggiati dalle paure infantili, infisse come funghi nella corteccia dell’inconscio: spiega Fra’ Claudio: “Cesarino” è morto, è accaduto l’irreparabile, un senso di vuoto assoluto viene ad invadere tutto, e allora la mente si sbizzarrisce in mille pensieri che si rincorrono confusamente tra il prima e il dopo…”Forse c’eri già”, ossia riemerge la sua presenza nel tempo in cui era vivo, non solo il ricordo, ma la stessa presenza fisica, che si continua ad avvertire, fortissima, anche dopo la sua dipartita” ”…ma forse tu l’hai fatto perché ne esistono già troppi di me, non stavo, volevo che anche tu per una volta sola con me, a chi ti ascolta dire perché…torna se vuoi, torna se vuoi, torna se vuoi, torna se vuoi”, ossia “Volevo che tu mi spiegassi il perché tu conducessi quel tipo di vita, acciocché io, scoprendo la reale motivazione di quella scelta, potessi favorirti in qualche sostanziale, concreto aiuto…”, e “…non stavo…volevo…”, è sempre fra’ Claudio a illuminarci, “esprime l’imbarazzo per sussurrare, con un filo di voce, ”. Devo aggiungere che oggi i clochard avranno pure altri, migliori abiti, rispetto a quelli che indossavano un tempo, ma è certo che il loro arrendersi nella battaglia della vita, è tutto sommato lo stesso di allora…nel mondo nulla è mutato, l’allontanamento collettivo dal bene supremo che è Dio…”.

Il turbamento d’animo capita allorché affiora il timore di Dio o il proposito fermissimo, che ha un preciso trono nelle memoria, di non offenderLo, a costo di una tattica antidemoniaca che preveda perfino la strategia di addormentarsi prima che sia il vizio ad addormentare, definitivamente, il nostro vigore, appena abbozzato sul pentagramma; anzi, abbiamo sconfinato sulla proprietà dei Freud, e il cane, nel loro giardino, già abbaia. La rapidità del sopruso non restituisce vis comica, e la visione non è poi così apocalittica, sebbene il nostro pudore indietreggi sensibilmente, guadagnando terreno. Ci tratteniamo, nella foga, dal rimuovere le pagine più belle del Vangelo, allorquando, vigili, immergiamo la costante attenzione nel pericolo di ustionarci al fuoco dell’esitation stress, ed è allora che…non ci bruciamo. Cerchiamo, ormai con il lumicino, grandi uomini. Non vogliamo e non possiamo spazzare le pagine sublimi del Vangelo, che occupa i nostri codici cromosomici. Pur temendo di essere sepolti da quell’acre polvere, soffocante, della secolarizzazione, in un momento di lucidità, dissolta in “lucid dream”, ci riappropriamo di scintille mnemoniche per interagire con la coscienza, o dell’estasi sufficiente a vedere eterno:” (Mc, 4,40).

Il sesto “connubio con il sole” dell’album più trascurato del progressivo italiano è “La canzone del padre”, incentrata sui conflitti generazionali. Sappiamo che è stato un episodio canoro assai metabolizzato da Claudio Canali, essendo un capitolo riguardante il suo, di conflitto. La gestazione è stata soffertissima, prima-durante-dopo il parto compositivo, che è e rimane un pesante atto d’accusa, per giunta declamato in prima persona, contro il versante prettamente istituzionale, dalla famiglia alla scuola, il versante oscuramente ottuso, quello che procede per schemi rigidi e che si ostina a non voler ascoltare le ragioni del ragazzo che di lì a poco sarà uomo. Quello che non tiene ben conto delle problematiche proprie della delicatissima fase che caratterizza, per svariate motivazioni collegate anche a naturali fattori di sviluppo fisico e psichico, l’età adolescenziale e post-adolescenziale, con le conseguenti crisi ed inevitabili frustrazioni, inscindibili dal resto, in special modo dall’inserimento spesso traumatico nella fatidica società, fatto salvo il rapporto con gli altri. E’ una canzone, comunque, destinata a pesare tonnellate sulla coscienza di chi la scrive, perché uno sfogo non costituisce un giudizio duraturo e irrevocabile, facendo parte di un periodo passeggero della vita di un uomo. Per tale motivo, dobbiamo prenderla con le pinze, calandoci nelle specifica situazione in cui si trova obiettivamente il “virgulto”, in un certo senso giustificato per la rabbiosa grinta della sua spontanea reazione agli ostacoli che incontra sul cammino della crescita verso una maturazione che non tarderà, e che temprerà quel ferro rovente in una foggia congeniale alla forma mentis, frutto del karma di ciascuno. Lo sfogo combacia, pertanto, con un insopportabile disagio del giovane, che trova conforto temporaneo nell’uso di parole dure, spesso eccessive e sproporzionate, dichiarazioni irrispettose contro coloro che vengono ritenuti responsabili delle sofferenze e delle incomprensioni. La sezione di partenza de “La canzone del padre” , autentico sfogo musicale, è introdotta da rumori di temporale in arrivo, tuoni da brivido immessi nell’aria da un “Baffo” Banfi in gran forma, puntualissimo nel curare le giuste atmosfere in relazione alle argomentazioni via via trattate. Come una vera ossessione ritornano alcune parole del padre severo che, di fronte all’entusiasmo del ragazzo che mette tutto il proprio ardore nell’incontrarsi con i compagni della sua banda musicale per provare brani nuovi al canto, al flicorno e al flauto, usa toni da caserma per richiamare alla realtà il figlio che, a suo parere, si lascia travolgere troppo prematuramente dai “sogni di gloria”: “Canterai un po’, crescerai un po’, poi vedrai o no”. Il ragazzo trova urticanti queste previsioni sul futuro di successo o di fiasco, che il padre così scopertamente gli prospetta. Il genitore è visto come persona indelicata, arrogante, impicciona e, soprattutto, incompetente e presuntuosa, credendosi all’altezza di smorzare gli entusiasmi e, quindi, nel diritto di svilire in partenza le potenzialità artistiche, in subbuglio con le idee creative in fermento, che esigono proprio in quel frangente, massima libertà di esercizio, concentrazione, metodo, stile, equilibrio, elementi tutti che il cantante-compositore ritiene compromessi dalla scriteriata arroganza del padre, frettoloso e inopportuno nel mettere in guardia il figlio dalle malaugurate conseguenze di una…irrefrenabile “montatura di testa”. Questa “posizione dalla cattedra”, autoritaria all’inverosimile, viene giudicata proprio male: il pretesto di insegnare “come vanno veramente le cose della vita” sta stretto al cantante che si lancia a criticare la scuola: ”…quei banchi di scuola che per anni ho scaldato, come si vive non me l’hanno insegnato…” . Viene altresì esaminato il difficile menage familiare in vista dei risultati, il profitto scolastico, l’esito degli studi, attraverso i sospetti, le diffidenze, le acredini:”Ricordo mio padre, si sentiva ingannato, aveva paura ch’io fossi bocciato”. La tipologia dell’andatura armonico-vocale è di eccezionale efficacia, ricalcando specie di cantilena che fa il verso, in modo irriverente, alle lagne insofferenti tipiche di un’educazione tradizionale, con tutte le sue insopprimibili “solfe”, con tutti i suoi “triti e ritriti in doppio brodo”. In verità, in questa pittoresca scenetta, risulta la perfetta descrizione dell’ asfissiante figura paterna, che il figlio immedesima nell’autorità-ficcanaso, nel potere costituito in seno all’intimità del nucleo familiare: il ruolo di un padre così invadente viene esorcizzato, dalla canzone meravigliosa del B. per l’Inf., e respinto quale minaccia seria per una corretta e naturale formazione dell’essere umano, che proprio nella famiglia dovrebbe trovare una solida base, un modello, o meglio il modello, anziché un direttore, “un grande capo”, un despota, padrone assoluto delle “condizioni metereologiche”. Ma i solchi del disco si avviliscono, ulteriormente, davanti ad un inaspettato deterioramento dell’ambiente familiare, che lungi dall’essere punto fondamentale della formazione della personalità in fieri del ragazzo, si abbassa quasi a sito repressivo, mattatoio delle giovanili aspirazioni. Abbiamo qui sostanzialmente riprodotta una secolare antinomia tra la libertà, espressa dal Rock, e la logica tradizionale contenuta nel noto proverbio napoletano “Mazz e panell fann e’ figl bell, panell senza mazz fann e’ figl pazz”. Il brano, a rotta di collo, degrada sempre più in basso, come avesse rotto i freni di una qualsivoglia ritrosia per la moderazione, divenendo quasi denuncia penale. Il racconto ne risente, introducendo un cattivo gusto amarognolo, tra lingua e palato. La trama trascende in particolari in cui si affaccia, purtroppo, anche la violenza : ”…poi mi picchiava e gridava ubriaco: ”. Pugno nello stomaco, veramente mozzafiato, drammatico nel panorama italiano di tutta la musica progressiva, (ancor più “deleterio” de “La donna e il bambino” dei Dalton, de “Il capestro” di Fabio Celi e gli Infermieri e di “Gil” dei Jumbo). Si resta davvero di sasso, disarcionati dal dramma psicologico vissuto dal figlio come conseguenza dell’imprecazione paterna, pari ad una bestemmia contro il decoro filiale: ”…questa sua frase ce l’ho ancora dentro”. Invece di sentirsi protetto e rispettato, il figliolo avverte di essere sempre più abbandonato:”E poi si avverarono le sue vecchie paure e convinse mia madre che non ero un buon figlio”. A tale stato di cose il giovane reagisce con l’intenzione di fornire una prova immediata di quel che vale ”…mi ritrovai solo con la mia rabbia, a voler dimostrare che non ero coniglio”. Gli scatti di rabbia sono impressi sulla roccia da un temperamento potente, la chitarra elettrica Gibson Les Paul di Marco Mainetti traduce alla lettera lo stato d’animo esplosivo, coriaceo nel dispensare sbalzi di rumori straripanti ed invadenti sugli spalti, ad arginare le stoccate poderose di “Baffo” Banfi al mini-moog. L’alluvione sonora, che impazza, irrora Canali senza mezzi termini, noncurante della pressione sanguigna alle stelle, tenuta sotto controllo soltanto dal basso Fender, impudico, di Fausto Bianchini, che manovra, con imperturbabili telegrafi, le direttive eque della batteria (carica) Ludwig di Mauro Gnecchi, già prim’attore nel LP della Trident. E’ comunque Giuseppe Cossa, a tener banco, con l’organo Hammond “modello L100”, su ogni asperità di tempo, capillarmente “previsitato” dal “Baffo”.Canali prosegue, imperterrito, a scucirsi il sacchetto della bile, riversando ogni genere di disamore sull’ascoltatore, che inorridisce per il brutale elenco di impressioni negative che si soffermano, nella parte centrale di questo penultimo, lungo brano, sul proprio orgoglio, stracciato sul viso del padre, sulla propria volontà, sulla determinazione di avere creduto fino all’ultimo alla proposta artistica e di aver fatto “concerti a migliaia” , pur affermando di essersi impantanato nel periodo di magre raccolte, con il successo ingloriosamente ambito a causa dell’atteggiamento ostico e diffidente di un pubblico esigente ed intransigente, difficile da accontentare. Pubblico spesso freddo, e indifferente ai sacrifici di loro musicisti: “con la gente che pensa…che crede…che guarda…”, ma in fondo “non vede tutto quello che qui veramente succede, se ti guardi attorno trovi schifo e paura”. E’ la non curanza l’arma che ferisce maggiormente, oltre il dolore morale subito a causa degli incassi che “son magri”: ci si sente allora svuotati di ogni energia e ci si vede sommersi da ogni sorta di problemi, da quel senso di colpa per non avere accettato il compromesso di “cantare come un cane ammaestrato”, magari in Conservatorio, sotto la guida di un Direttore d’Orchestra, proprio come da fantasie paterne, che avrebbe sognato per il figlio una carriera secondo i canoni classici dello studente modello…ma “ti ho odiato, padre, perché non capivi che la mia vita non è un tuo programma”. Riemerge qui, in tutta la sua esuberante freschezza, il senso di libertà, il senso di sfrenatezza nel gridare al mondo la volontà di sentirsi vivi nel pronunciare il proprio sentimento senza catene, che da sempre ha pervaso il musicista rock, santone insuperato nel fare di testa sua, anche a costo di pagare duramente di tasca propria le conseguenze degli errori commessi. Stupisce infinitamente la successiva strofa, compendio delle amarezze ingozzate in prima persona, che il futuro frate canta fuori di se: “Ti ho odiato, padre, perché maledivi chi era più in alto di noi qualche spanna”, aspetto straordinariamente sorprendente, in linea con una ipotetica, coerente linea di condotta, adottata in oggi da un religioso che reagisse a una bestemmia o contro un atto sacrilego. Mi soffermerei, inoltre, a riflettere sul rispetto che il cantante, in tale passaggio testuale del brano in esame, dimostra di nutrire limpidamente, già in allora, per il Padre Celeste, che, secondo il compositore di questa meravigliosa canzone-sfogo, ossia Claudio Canali medesimo, non avrebbe potuto mai e poi mai essere offeso e maledetto da nessuno, neanche dal genitore più arrabbiato!!! Nella parte conclusiva della canzone, si registra un capovolgimento di giudizio sulla figura paterna, cosa che riesce alquanto patinata, per via di un’ improvviso afflosciamento critico della figura paterna , a rincarare, ciò malgrado, la dose sull’anziano, colto impietosamente sulle luci e sulle ombre di un comportamento spietato, contraddittorio, se vogliamo, ma sostanzialmente denso di affetto per il figlio, quasi a ricordare che trattasi sempre “di sangue del proprio sangue”:”E oggi invece mi fai tanta pena, però almeno tu hai una vita serena…” Come si vede, il rancore verso il vecchio si attenua in una pietà velata, forse da una goccia di rimorso, che pian piano prende corpo fino a imporsi nei paralleli abbozzati tra la vita dell’anziano, certamente serena, e quella del cantante, costantemente tormentata, movimentata, agitata nelle peripezie dei continui spostamenti per i festivals pop organizzati nelle penisola: “…e quando mi vedi, godi far lo spaccone: ”. Si intuisce facilmente, già dall’impostazione vocale, secondo me dolcissima, il pentimento del figlio per la valanga di sferzanti parole abbattuta sul padre, un “restringimento del cuore” che prende il sopravvento sulla nostra sensibilità di estimatori del prog, subissato, in tale frangente, di contrasti logici, emotivi, molto forti, molto adatti ad imperlare il coloratissimo abito di questo tipo di musica che ti modifica l’animo, che ti accende di un misto di speranza e malinconia, scacciando i fantasmi di una stasi sentimentale, capace di portare alla depressione, alla pazzia, o al punto di non-ritorno dell’illusione da droghe e affini, tagliole mortali in cui, purtroppo, sono cadute moltitudini di ragazzi. La contrizione, che avvince, in Canali e soci, è la vera rivoluzione del sentire, dell’avvertire di colpo che l’aria la si può davvero cambiare con le energie spirituali che hai dentro, e che riesci a cacciare fuori, impedendone l’atrofizzazione mediante la solita, meccanica, deviazione dalla retta via. E’ un cambiamento di rotta coraggiosissimo, perché la forza contenuta nella sincera compunzione, dimostra che puoi trasformarti con le tue stesse mani, e non è cosa da poco, in quanto catapulti il tuo io in terre ricchissime, dalle risorse praticamente infinite. Si crea un attrito tra una corrente originaria, quella che ti attanagliava in un giudizio univocamente negativo nei confronti di colui che ti mise al mondo, ed una successiva, inventata da te sul momento e che è gratificante provare di possedere e dominare, estraendosi, dalla materialità rozza delle azioni fin lì commesse, un qualcosa di elettivo, di spiritualmente positivo, di idealmente grandioso, che comincia ad impregnare l’atmosfera e a farti toccare, paradossalmente, una dimensione diversa dalla minestra di tutti i giorni, una dimensione che non è ancora del tutto immateriale, e nella quale, però, cominci a realizzare che è fattibile vivere

NON DI SOLA MATERIA.

 

Ne “La canzone del padre” del B. per l’Inf. c’è tutto questo, sussiste una specie di controcorrente, idealizzata nel pentimento per gli atti pesanti di commento negativo verso tutto quello che ha fatto di bene tuo padre nei tuoi confronti e che tu non capivi, che ti prende alla gola e ti fa propendere per una sorta di suicidio morale, ossia per una mossa definitiva verso il tuo passaggio dalla visione malvagia alla posizione autopurificatrice, nel bene incontrovertibile. Ecco spiegata la radicale metamorfosi nello spirito di un grande uomo come Claudio Canali, da cantante a frate eremita. Metamorfosi, che ha avuto la sua attivazione e il suo compimento, attualmente in divenire, grazie ad una forza spirituale incommensurabile, universalmente denominata “Spirito Santo”, contro cui si rimane assolutamente impotenti al voler ricambiare rotta, allo sfuggire alla preziosissima influenza (cfr. “La perfezione consiste nel fare la Sua volontà, nell’essere ciò che Egli vuole che siamo” – da “Storia di un’anima” di Santa Teresa di Gesù Bambino). Ne “La canzone del padre” c’è tutto questo: è adombrata, in chiave moderna, la parabola del Figliol Prodigo, mai sprizzati così tanti stati d’animo, in così poco spazio! Distanze emozionali surreali, così nascoste e personali, non se ne sono mai vedute in una canzone e, a ben guardare, c’è una riserva di tenerezza mastodontica, pur nel mezzo di una piena “amore-odio”, se vogliamo comprensibile nelle fragilissime scorribande di un’educazione autoritaria, tradizionale, all’antica, nel “campo nomadi” di un vivace carattere in cantiere, un figliolo che si crede artista emergente spaccatutto, ribelle ad accettare imposizioni di ogni tipo, refrattario a mandar giù la pillola della presenza “rompigliona” di un padre deciso a fare, alla sua maniera, il bene del figlio, all’insaputa di questi. Anche l’uomo comune , nel suo affannarsi quotidiano, crede che il Padreterno gli abbia riservato solo disgrazie nel donargli l’esistenza, ma non è così, non è questione di “heart of stone”!!! Nel velamento amorevole della verità, si riflette il rapporto Padre-figlio, nell’asse di verticalità dogmatica Dio-uomo, diffusamente presente nelle parole sacre contenute nel Vangelo: ”…da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv. 13,35). E che Claudio Canali sia stato discepolo anche di un grande maestro terreno, viene confermato da quanto lui stesso scrive nel capitolo “I genitori”, del suo libro autobiografico, tutt’oggi non pubblicato, “Il tempo della semina”, capitolo che suggella il suo “Not a second time” e che qui riportiamo relativamente alla parte riguardante suo padre: ”Il mio povero papà le provò tutte, le buone e le cattive, e certamente le preghiere, ma non c’era nulla da fare. Mi regalò una moto, usava modi cortesi, e un giorno, per accaparrarsi la dovuta “simpatia” e per sciogliere i modi gelidi della mia ignoranza, che a volte ci dividevano, ricorse a uno stratagemma che sul momento portò serenità e allegria. Suonò il campanello di casa, e quando andammo ad aprire, c’era lui travestito da capellone yuppie, con tanto di parrucca, ciondolo pendente dal collo e chitarra, e quando chiese di me, mia madre e i miei fratelli risero di cuore. Risi anch’io, si, ma in fondo al cuore mi rimase, tra lo stupore e la meraviglia, il sentimento del suo amore per me, l’amore di un padre che le provò tutte per raddrizzarmi le strade. Ma ricordo anche che, non era nel suo carattere, ma sapeva prendere decisioni dure se ne era il caso. Una volta che rientrai tardi, trovai la porta chiusa. Da tempo c’era una situazione che per loro era insopportabile, bussai…nulla! Pensavo:. Non pensai ad altro che ad un sopruso, sentivo che loro erano in casa, allora come un animale inferocito bussai violentemente per un po’, ma non mi aprirono. Ritornai in me all’arrivo della camionetta dei Carabinieri, che mi presero e mi portarono in caserma e dopo mezz’ora di attesa, mi fecero sedere in ufficio e mi chiesero perché mi fossi comportato così: era mio padre che li aveva chiamati. Spiegai la mia situazione, dicendo che non avevo nulla contro mio padre, anzi…ma, purtroppo avevo agito in quel modo. Mi rilasciarono con un’amorevole ammonizione. Tornai a casa, cercai di risolvere la situazione andando anche a dormire fuori, sugli scogli del molo, nel negozietto, ma le cose non cambiarono. Il Signore dice:, infatti i miei passi senza il suo aiuto, che avrei dovuto chiedere, erano in una direzione sbagliata e non servivano a nulla> ”.

L’atto finale dell’album–fantasma del B. per l’Inf. è una traccia strumentale appena delineata, eppure acutamente sintomatica, della spiccata attitudine di questi ragazzi a sciorinare rock di sostanza e di classe, con disinvoltura estrema: il brano, “Senza titolo”, è una summa della loro poetica musicale, fondata principalmente su un gergo schiettamente diretto, bollente, mirato al raggiungimento di un comfort acustico subitaneo, che riesce mirabilmente riposante e, insieme, serenamente frizzante. Partendo da un tocco fortemente metallico della chitarra elettrica, esso si stratifica in un susseguirsi di proiezioni “a cascata”, scarne ma essenziali, eloquenti già nello sviluppo della trama, lavorata a puntino da un rullare di tamburo cucito, con gusto, addosso ad uno schema familiare d’estrazione classica, il bolero, istigato, fino al midollo, da rock seminale, della migliore tradizione, angolato, smussato con abilità insuperabile, sfociante in trepidanti effetti di raro equilibrio formale. Sono due frasi principali in successione a rincorrersi, in uno slancio costruttivo, fuso nell’ideale dispiegamento delle energie più vive, esprimenti un feeling acerbo quanto accattivante, privo di tappabuchi, smaccatamente originale. Le frasi non mollano, per tutta la durata del brano, il piede dall’acceleratore ritmico, contemplato da una chitarra-basso estirpata dalle plaghe desertiche degli anonimi, silenziosi sottofondi, ed innestata, con speciali cerotti anti-rigetto, sul tessuto pseudomelodico del tocco armonico del legnoso manico alle corde, colte sul punto di infuocarsi. Le rade battute, ripetitive, vengono sistematicamente edulcorate da un flauto traverso mai prono, disposto a cedere giammai un grammo del suo peso specifico, caratterizzante l’intero, superlativo, “parco macchine”. I sottilissimi fili sonori brulicano, opportunamente “trattati”, negli ingranaggi tritainsulsaggine, di fabbricazione hendrixiana, per una totalizzante omogeneizzazione dei riff spurgati, semplicissimi quanto indimenticabili ( ). Così che, alla fine, ci troviamo rivestiti a nuovo da un sound di cui andiamo fieri, omogeneizzato millimetricamente, con gli stilemi più onorabili dell’hard rock europeo, primo tra tutti quello del “Tiger rock” di Tiger B. Smith. Tra le maglie di un mantello così comodo, avvertiamo i brividi, non termici, ma emotivi, del nostro modo di parlare, del nostro modo di interpretare la vita, con quell’insostituibile velo di speranza, di libertà, di amore. E’ il momento in cui le due frasi diventano un solo, impetuoso inno, istante supremo nel quale il motivo secondario, d’accompagnamento al refrain contenuto nel principale, intercetta e raggiunge, in ascensione, quest’ultimo, mischiandosi ad esso, come un’onda a un’altra in un estuario, rompendo l’apparente monotonia del pezzo, stuzzicante. La cadenza, in ultimo, si tuffa in un “largo” che regala il respiro ideale alla sfumatura totale, inebriante, esorcizzata dal “colpo della strega” verbale, dalla trasfigurazione dei pensieri, dal codazzo istintuale. Può tranquillamente sostenersi che, le due frasi di questo “canto-incanto del cigno” del B. per l’Inf., sono l’una la continuazione dell’altra, a simboleggiare, in forma di musica, la predizione che vedrà nella realtà dei fatti, come tutti sappiamo, la mutazione graduale e profondissima di un rockettaro in fraticello, di “un agitato da palco” in eremita. Cornice d’oro per un quadro d’oro.

Deve essere sottolineato che l’ “ametista” che abbiamo or ora illustrato è contenuta esclusivamente nel microsolco a 33 giri, che nel 1992 la sanremese Mellow Records sfornò in edizione limitata e formato gatefold, risultando invece assente, per insondabili motivi, sia sulla edizione, di quello stesso anno, in supporto digitale della Casa Discografica ligure, sia sul CD emesso sul mercato più recentemente dalla rediviva Trident.

Ma c’è di più…un ottavo brano di rock puro, purtroppo irrimediabilmente perduto, non registrato per mancanza di tempo, ma provato di corsa, al massimo tre quattro volte, in barcollanti, estemporanee occasioni, dal titolo “Il sole splende per tutti”, affrontava apertamente i mali sociali, analizzandoli con occhio obiettivo ed in codice eminentemente trascendentale, per arrivare alla conclusione, genialmente moralistica, che, superata pazientemente la trafila delle inevitabili sofferenze dovute alle travagliate esperienze terrene, altrettanto puntuale sarebbe giunta per ogni uomo, degno di tal nome, il meritato premio, sotto forma di luce eterna. Dal lato eminentemente morale-musicale, sembra che questo “manoscritto dissolto dal tempo e dalle supposizioni” presentasse qualità organolettiche sue proprie, non facilmente etichettabili e raffrontabili con i modelli coevi, pezzo rock sperimentale dunque, figurativamente avvicinabile a una teiera londinese scoppiata, per la temperatura elevatissima del suo contenuto, allo scoccare del five o’ clock. Ma sorbiamo dalla viva voce di Fra’ Claudio questa mitica bevanda, puro nettare inusitato per i nostri rinsecchiti padiglioni auricolari.

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